Caso Uva: Fsp Polizia, finisce persecuzione durata 11 anni.

Caso Uva: Fsp Polizia, finisce persecuzione durata 11 anni = (AGI) – Roma, 8 lug. – “I poliziotti coinvolti nel ‘caso Uva’ definitivamente assolti dopo il terzo grado di giudizio. Una ‘innocenza indubitabile’, per noi ma anche sul piano giudiziario visto che e’ la conclusione a cui si e’ giunti per ben 5 volte in questo procedimento. Pero’ sentenziata dopo 11 anni di un inferno che pochi possono reggere, meno che mai agenti che vivono con i nostri stipendi, che vivono del loro onore, che dedicano la vita a rispondere al dovere e si vedono additare come ‘nemici’ dei piu’ deboli”. Cosi’ Valter Mazzetti, segretario generale dell’Fsp Polizia di Stato, dopo la definitiva assoluzione di poliziotti e carabinieri imputati per la morte di Giuseppe Uva, deceduto il 14 giugno 2008, sette ore dopo essere stato portato nella caserma dei Carabinieri di Varese. La Suprema corte ha respinto il ricorso contro la sentenza con cui la Corte d’assise d’appello di Milano confermo’ le assoluzioni pronunciate in primo grado dalla Corte d’Assise di Varese. Al termine delle indagini il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione, ma il gip dispose l’imputazione coatta. In seguito anche il nuovo pm, il procuratore facente funzione di Varese, chiese il proscioglimento degli indagati, ma nonostante tutto si giunse davanti alla Corte d’assise dove l’accusa chiese l’assoluzione, poi sentenziata dai giudici.  “Undici anni e tre richieste della Procura fra quella di archiviazione, quella di proscioglimento e quella di assoluzione, che fanno sembrare tutto questo una persecuzione. Impossibile adesso – aggiunge Mazzetti – ripagare i colleghi di quanto subito, perche’ hanno subito senza colpe e senza tutele. Tutta la nostra solidarieta’ a loro che escono a testa alta da un iter giudiziario che ha messo in ginocchio anche le famiglie, costrette a sopportare un peso che schiaccia chi non ha i mezzi per resistere, tanto che dovrebbe essere lo Stato a farsi carico di quel peso, immediatamente e completamente, in virtu’ del principio di presunzione di innocenza, che nel nostro caso vale ancor di piu’ a causa del malcostume di crocifiggerci perche’ indossiamo l’uniforme”. Il segretario generale dell’Fsp Polizia di Stato dice inoltre che “la divisa non e’ e non sara’ mai simbolo di violenza e ferocia, al di la’ delle bugie di chi getta su di noi l’ombra del sospetto attentando all’indispensabile rapporto di fiducia che ci lega ai cittadini. Oggi ancora una volta l’autorita’ giudiziaria conferma che e’ cosi’, ed e’ una vittoria per tutti. Il dolore dei familiari di chi non c’e’ piu’ deve essere pienamente rispettato, va detto pero’ che le sentenze non sono buone solo quando ci dicono cio’ che vorremmo sentire, e i giudici non sono onesti solo quando ci danno ragione, proprio come i poliziotti non sono corretti solo quando si tengono alla larga dalle situazioni di rischio”. Infine, 2il rischio, purtroppo, fa parte di questo lavoro. Un rischio che accettiamo, nonostante la calunnia in agguato, la diffamazione dietro l’angolo, le conseguenze di eventi che purtroppo fanno parte di questa nostra realta’. Tutte cose che pero’ ci costano qualcosa di irrecuperabile sul piano personale, familiare e professionale”.

Caso Uva, Fsp polizia: Innocenti per 5 volte, divisa non vuol dire violenza

Caso Uva, Fsp polizia: Innocenti per 5 volte, divisa non vuol dire violenza Milano, 8 lug. (LaPresse) – “I poliziotti coinvolti nel ‘caso Uva’ definitivamente assolti dopo il terzo grado di giudizio. Una ‘innocenza indubitabile’, per noi ma anche sul piano giudiziario visto che è la conclusione a cui si è giunti per ben 5 volte in questo procedimento. Però sentenziata dopo 11 anni di un inferno che pochi possono reggere, meno che mai agenti che vivono con i nostri stipendi, che vivono del loro onore, che dedicano la vita a rispondere al dovere e si vedono additare come ‘nemici’ dei più deboli. Undici anni e tre richieste della Procura fra quella di archiviazione, quella di proscioglimento e quella di assoluzione, che fanno sembrare tutto questo una persecuzione. Impossibile, adesso, ripagare i colleghi di quanto subito, perché hanno subito senza colpe e senza tutele”. Così Valter Mazzetti, segretario generale dell’Fsp polizia di Stato, dopo la definitiva assoluzione di poliziotti e carabinieri imputati per la morte di Giuseppe Uva, deceduto il 14 giugno 2008, sette ore dopo essere stato portato nella caserma dei carabinieri di Varese. La Suprema corte ha respinto il ricorso contro la sentenza con cui la Corte d’assise d’appello di Milano confermò le assoluzioni pronunciate in primo grado dalla Corte d’assise di Varese. Al termine delle indagini il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione, ma il gip dispose l’imputazione coatta. In seguito anche il nuovo pm, il procuratore facente funzione di Varese, chiese il proscioglimento degli indagati, ma si giunse davanti alla Corte d’assise dove l’accusa chiese l’assoluzione, poi sentenziata dai giudici. “La divisa – sottolinea Mazzetti – non è e non sarà mai simbolo di violenza e ferocia, al di là delle bugie di chi getta su di noi l’ombra del sospetto attentando all’indispensabile rapporto di fiducia che ci lega ai cittadini. Oggi ancora una volta l’autorità giudiziaria conferma che è così, ed è una vittoria per tutti”. “Tutta la nostra solidarietà – prosegue Mazzetti – a loro che escono a testa alta da un iter giudiziario che ha messo in ginocchio anche le famiglie, costrette a sopportare un peso che schiaccia chi non ha i mezzi per resistere, tanto che dovrebbe essere lo Stato a farsi carico di quel peso, immediatamente e completamente, in virtù del principio di presunzione di innocenza, che nel nostro caso vale ancor di più a causa del malcostume di crocifiggerci perché indossiamo l’uniforme”.”Il dolore dei familiari di chi non c’è più – conclude Mazzetti – deve essere pienamente rispettato, va detto però che le sentenze non sono buone solo quando ci dicono ciò che vorremmo sentire, e i giudici non sono onesti solo quando ci danno ragione, proprio come i poliziotti non sono corretti solo quando si tengono alla larga dalle situazioni di rischio. Il rischio, purtroppo, fa parte di questo lavoro. Un rischio che accettiamo, nonostante la calunnia in agguato, la diffamazione dietro l’angolo, le conseguenze di eventi che purtroppo fanno parte di questa nostra realtà. Tutte cose che però ci costano qualcosa di irrecuperabile sul piano personale, familiare e professionale”.

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